Michele è un giovane imprenditore-pasticciere in una media città di provincia. Tiene molto all’immagine di sé e della sua attività, desidera presentarsi come un professionista affermato, uno in gamba e davvero competente.
È un uomo piuttosto competitivo, molto giudicante rispetto ai suoi colleghi (subordinati) ed eccessivamente critico nei confronti degli altri “operatori della ristorazione”: quando esce per un aperitivo o una cena trova sempre elementi di giudizio, in cui appare evidente che lui avrebbe di certo fatto diversamente… e meglio.
Gestisce il suo “team” come un comandante sempre sicuro di sé, senza un confronto alla pari, non chiede consigli e nelle relazioni attiva posizioni asimmetriche (up-down).
Risulta piuttosto antipatico, ma questa convinzione non lo disturba, anzi, interpreta questa percepibile sensazione come un atteggiamento di invidia nei suoi confronti, la conferma che gli “altri” hanno capito che lui è il numero uno e quindi vorrebbero, senza speranza, arrivare al suo livello.
Questo indossare la “giacca del n°1” è l’esatto contrario della “sindrome dell’impostore”.
… Se continuo a dire che sono il migliore alla fine tutti ci crederanno, ci crederò davvero anche io, è il pensiero dominante di Michele.
Questa visione di sé diventa utile (a volte necessaria) per nascondere una notevole fragilità interiore, come indossare un giubbotto antiproiettile per la paura di venire colpito dai giudizi (soprattutto dai propri), per proteggersi dagli “errori” che farebbero sentire Michele inadeguato, non all’altezza di un’immagine “protettiva” e vincente. Per questo vive in una dimensione tutta sua, magica, rassicurante… falsata.