La vicenda del promotore finanziario di Trento (ma si scoprirà presto che non era iscritto all’albo) che a marzo uccide i due piccoli figli e si suicida ha sconvolto una città e non solo.
Un enorme castello di carte è crollato lo stesso giorno in cui si sarebbe alzato il velo su una situazione ben diversa da come lui l’aveva costruita: l’ appuntamento dal notaio per l’acquisto di un attico del valore di 1,2 milioni di euro avrebbe messo fine ad un’escalation di menzogne.
Quei soldi Gabriele Sorrentino non li aveva, si vantava con la moglie di aver ottenuto guadagni importanti “giocando” in borsa con i soldi ottenuti dalla vendita di una casa dei suoceri e dal denaro prestato da amici e conoscenti in cambio di un 3% di interessi.
Tutto falso, il desiderio di arrivare in alto, del successo e dell’importanza che l’essere ricco davvero ti conferisce avevano sempre più allontanato in lui il sé ideale da quello reale.
Difficile ammettere cadute, errori ed ingenuità in una società che ti vuole performante e capace, difficile essere felici di ciò che si è se si è convinti che felicità è ciò che si ha.
Impossibile rinunciare al prestigio di una bella casa, di un’auto importante, di sentirsi ammirati da amici e conoscenti per le doti da “mago della finanza” se tutto questo serve a sostenere un’identità fragile, la convinzione di essere “non ok”, un piccolo ed insignificante uomo.
Non è un caso che Gabriele si è ucciso salendo in alto e cadendo nel vuoto per 150 metri, una caduta che riassume, nella sua tragicità tutte le volte che non ha voluto cadere come normalmente accade alle persone, agli uomini. Si cade ma non si resta a terra, ci si rialza per combattere.
Ha voluto portare con sé tutto ciò che poteva, un omicidio che intendeva forse proteggere i figli da un’esistenza che lui vedeva senza senso.
Rimane il dolore e la rabbia della moglie e della figlia sedicenne.
E a noi il desiderio di accettare le nostre fragilità…
M.C.